È color cammello, ma ricorda anche il caramello. E preferisce le bionde. Ecco una breve storia illustrata dell’outfit più chic dell’inverno 2016: il cappotto cammello, o camel coat.
Il cappotto camel preferisce le bionde. È retrò senza trascendere in un mood troppo vintage, è sofisticato (“gattamortiano” direbbe qualcuno) ma può essere indossato con un paio di Adidas Stan Smith senza perdere la propria allure chic. Il camel si caratterizza per essere un passepartout: anzi, come rivela Laura Lusuardi, fashion director di Max Mara, è il nuovo nero, “perché è un colore neutro ed è quindi estremamente facile e versatile negli abbinamenti; è conservatore e maschile ma può essere anche molto informale e perfino sportivo“. In realtà, una bionda (miele, platinata, mechata, caramellata, fragola) che indossa un camel coat a uso e consumo dei fashion hashtag su Instagram non è detto che conosca la storia del capo e lo status symbol corrispondente, estroso, favoloso e diverso a seconda delle epoche.
I primi cappotti cammello apparirono alle Olimpiadi di Londra nel 1908 ma il capo deve la sua iconica fortuna agli anni ’50 e oltre, e si porta dietro anche la fama annessa di riuscire a “influenzare” gli eventi, come se fosse un oggetto magico. Non ci credete? Chiedetelo a Bruno Pesaola, l’ultimo allenatore ad aver vinto uno scudetto a Firenze (1969) esultando sotto un capospalla camel. Lo conserva ancora anche se lui dice “Il cappotto bisogna averlo in testa, per vincere nel calcio”.
Tra sogni e magie, il cappotto cammello “esplode” come simbolo di “stile maledetto” mescolato alla “urban elegance” negli anni ’50. Lo portavano icone con le identità frantumate come Marlon Brando in “Ultimo Tango a Parigi” (come dimenticare la sua passeggiata) o Alain Delon, a cui sembrava cucito addosso insieme all’impasto delle sue insicurezze e al fascino malinconico. Pelo, pellicce, lana e bottoni nel film di Bertolucci veicolano il disagio esistenziale e il ripiego erotico dei protagonisti.
Nel 1982 Max Mara lancia la propria punta di diamante, il modello 101801, “Un oggetto di design” dichiara Laura Lusuardi “Un doppiopetto in beaver e cachemire che rispetta due requisiti basilari: versatilità e vestibilità”. E il cappotto cammello rivive, interpretando gli eventi istituzionali della Principessa Diana, l’inquietudine “cenerentoliana” di Barbra Streisand in “Come eravamo” o le serate grunge-chic di Kate Moss.
Rieditato, rimasticato e ri-fashonizzato da Laura Biagiotti, Alexander Wang o Stella McCartney, il camel coat scivola nella modernità liquida degli anni della sharing economy e delle vetrine social(i). I puristi del colore lo associano alle bionde: come le tinte castagna o cioccolato si adattano ergonomicamente alle more, le bionde vestono i grigi ghiacciati e la delicata tonalità del cammello con una leggerezza pronta da Instagrammare, in grado di riattualizzare un evergreen adattandolo alla propria cornice, quella dello sporty chic (il cappotto cammello 2016 è abbinato a scarpe da tennis, pellicciotti corti e confeziona splendide bambole urban-glam). Prima il camel coat era veicolo di frantumazione interiore, ora è la chiave (social) che apre il Paese delle Meraviglie. Nella prossima epoca, chissà.
Photo Credits Pinterest, Instagram
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